
«Vieni o Maggio»
Alla fine del 1962 Roberto Leydi, che aveva con Gianni Bosio iniziato nel 1960 una ricerca sui canti sociali italiani, mi convinse a iniziare una ricerca sull’argomento a Novara e Provincia. I materiali di questi due CD sono il portato di quella mia prima ricerca, condotta dentro all’attività de I Dischi del Sole e del Nuovo Canzoniere Italiano.
Le memorie orali e il repertorio di canto sociale dei sei cantanti e narratori scelti rappresentano un’importante fonte per conoscere il mondo proletario del Novarese tra la prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo.
Pietro Graziosi (n. a Granozzo nel 1903) era comunista dalla fondazione del PCd’I nel 1921. Dapprima bracciante e attivista della Lega contadina del suo paese, poi divenuto portinaio in uno stabile di Novara.
Luigi Grassi (n. a Lumellogno nel 1900), contadino, era anch’egli un militante comunista dalla fondazione e mi venne indicato come il depositario di vecchi canti. Non si era mai mosso dal suo paese,
Camilla Malandra (n. a Novara nel 1901), aveva fatto la mondina negli anni Venti e Trenta nella zona di Cameriano ed era comunista. Viveva in città a Novara.
Angela Stangalini (n. a Lumellogno nel 1899), da ragazza mondariso nella sua zona, aveva poi lavorato come tornitrice alle Bollonerie Tornite di Novara. Già militante socialista, era entrata nel PCd’I al momento della fondazione, dando la propria attività anzitutto nel sindacato. Abitava a Novara.
Aveva due nipoti, tra loro cugine:
Fenisia Baldini (n. a Lumellogno nel 1909) aveva dapprima fatto la mondina, poi aveva lavorato al cotonificio Wild, esplicando una lunga attività sindacale come membro di Commissione Interna e venendo licenziata nel 1954, in seguito ad uno sciopero da lei promosso e riuscito solo parzialmente. Quando l’ho registrata faceva la donna delle pulizie alla Federazione Cooperative di Novara.
Giuseppina Stangalini, detta Piera (n. a Casalgiate nel 1906), anch’essa comunista, aveva fatto la mondina da ragazzina e poi la benatrice alla Rotondi, fabbrica tessile. Licenziata dopo l’occupazione delle fabbriche del 1920, aveva poi lavorato in un altro stabilimento tessile a Borgosesia, dove aveva vissuto sino al 1948, trasferendosi poi a Novara, dove viveva in un appartamento sullo stesso ballatoio della sorella, in un cascinale inurbato di via Pietro Micca a Novara, nel rione di San Martino.
Mentre Luigi Grassi e Pietro Graziosi avevano soprattutto cantato in compagnia nei Circoli operai del loro paese (purtroppo non chiesi loro se quel loro repertorio l’avessero cantato anche sul lavoro), anche per le quattro donne sarebbe improprio parlare per le loro esecuzioni di canto di monda, che è uno stile esecutivo corale in funzione di lavoro o trasferito sempre connotato dal fatto che, qualunque fosse il numero dei lavoratori che cantassero, si basava su un intreccio a tre voci: el prüm (la prima voce), el secund (seconda voce), el bassur (il basso, cioè le voci che avevano funzione di pedale. L’attacco del canto è affidato alla prima voce (raramente alla seconda), che “intona” e dopo le prime parole entrano le altre voci, in parallelo alla prima voce, una terza sopra o sotto e con ritmo uguale in tutte le parti. Il basso, che ha anch’esso ritmo uguale, ha funzione di bordone mobile, che alterna tonica e dominante inserendo note di passaggio dall’una all’altra.
Qui le donne sono state registrate singolarmente e solo in un paio di occasioni ho potuto registrare le due cugine in funzione di prima e seconda voce.
Questo anche perché Angela e Giuseppina Stangalini – a differenza di Fenisia Baldini – raramente erano disposte a cantare (per questo, tra l’altro, mi fu impossibile registrare altri canti da Angela, dopo un paio di sedute iniziali con un piccolo registratore portatile a pile di marca giapponese).
In queste esecuzioni, comunque. del canto di monda resta la sapienza nel modo di prendere i fiati, le voci tra gola e testa, la padanizzazione di alcuni testi e buona parte se non addirittura tutto il repertorio.
E’ la lunga abitudine a cantare durante i lavori domestici a fare in realtà di Fenisia Baldini (che canta sempre in seconda voce) forse la maggiore interprete del nostro canto sociale. Se Teresa Viarengo è stata la maggiore interprete delle nostre canzoni narrative, che cantava nei lavori di casa, Fenisia Baldini lo è stata del nostro canto sociale.
Tutti questi canti e narrazioni sono state registrati da me tra il 1963 e il 1970, prevalentemente nel 1963-64, con apparecchi diversi e di ben diversa affidabilità: inizialmente con un piccolo registratore portatile e a pile, per cui oggi riascoltando i nastri si velocizzano progressivamente (e solo con un apposito lavoro ho potuto recuperarli), poi con un Gründig cedutomi da Roberto Leydi, in seguito con un Juli Corder, infine con un Uher 4.200. La resa sonora è quindi per alcuni documenti men che mediocre, ma la loro importanza per la ricostruzione della vita operaia e contadina a Novara mi è apparsa sempre più importante e ho quindi fatto di tutto per renderli il più fruibili possibile.
Questi CD non vanno ovviamente ascoltati con la disposizione d’animo con la quale si ascolterebbe un disco ma come, per esempio, si ascolterebbe una trasmissione radiofonica e avendo presente, sullo sfondo, la situazione del Novarese, negli anni cui questi brani si riferiscono.
Nel primi due decenni del secolo, con il rafforzarsi del Partito socialista e della Camera del Lavoro e le multiformi iniziative di “propaganda elementare” rivolte sia verso la città che verso la campagna, viene formandosi anche nel Novarese un repertorio socialista di canto sociale.
Va detto che questo repertorio – nella situazione di un capoluogo che è ancora immerso nella realtà della campagna – ha caratteristiche simili sia tra i contadini sia tra gli operai, perché l’influsso non è a senso unico dalla città alla campagna, sebbene in tal senso esso sia molto forte.
Così, se le strofette di uso contadino che definiremo “monostrofismo imperfetto” sono, e sia pure in minor misura, anche di uso urbano, i canti sociali della “propaganda elementare” operaia circolano largamente tra i contadini socialisti.
Il sorgere tardivo delle organizzazioni di classe nel Novarese, sull’onda dei primi grandi scioperi contadini del 1901, fa sì che questo repertorio socialista si sviluppi sul tronco di una tradizione già sedimentatasi lungo tutto l’Ottocento e divenuta sin dagli anni Ottanta esplicita espressione di comunicazione rivendicativa e contestativa di massa in tutte quelle zone della pianura padana dove il proletariato agricolo era stato spinto sin da allora alla formazione di organismi di difesa e a grandi lotte per la sopravvivenza fisica delle popolazioni, cioè nel Mantovano, Cremonese, Lodigiano, Parmense, Bresciano, Rovigino, Alto Milanese, Cremasco e Varesotto; e nelle città dove aveva operato il Partito Operaio Italiano.
Il canto sociale, sin dalle sue origini fenomeno di frontiera tra culture ufficiali (sia dominante sia di opposizione) da un lato e culture popolari dall’altro, utilizza a volte testi e musiche provenienti dalle prime (innodia borghese o socialista, arie da romanze, melodrammi, operette, canzonette di consumo, marce e arie militari, ecc.), a volte di produzione popolaresca (soprattutto moduli metrici e musicali da cantastorie, di facile apprendimento, massicciamente radicatisi nell’Italia settentrionale nella seconda metà dell’Ottocento e, grazie ai testi consegnati a fogli volanti e alla mobilità dei cantastorie per piazze e fiere, poi diffusisi in tutta Italia), a volte interni alla tradizione popolare (soprattutto quel materiale di largo uso contadino, fortemente plasmabile e trasformabile a seconda delle situazioni, rappresentato da strofette, stornelli e strambotti, che può definirsi di “monostrofismo imperfetto”; trattasi cioè di un insieme di unità metriche e semantiche autosufficienti, quasi mai cantate isolatamente ma per lo più in successioni associative libere da sequenze preordinate di tipo narrativo, che strutturano una larghissima parte del canto sociale contadino e di manifattura, facendone per esempio anche parte le strofette che formano Il Canto della lega o Le otto ore o ancora Bandiera rossa. Diffusi anche gli stornelli.
A fianco di questo monostrofismo imperfetto si trovano però anche trasformazioni della tradizione epico-lirica – come nel caso di Mamma mia dammi cento lire, che ha trovato il proprio modello di partenza nella canzone narrativa che Costantino Nigra ha chiamato Maledizione della madre – o testi narrativi contadini adattati a moduli da cantastorie. Questo aspetto è tuttavia del tutto marginale in questo repertorio. Se in esso appare La canzone del Nero, è perché il Nero viene considerato da chi canta un anarchico e non un semplice malavitoso; se vi appare E la serva la va ‘ntal foš, è perché questa canzone ha carattere accesamente anticlericale, accentuato dal ritornello con cui è qui combinata.
In realtà il repertorio delle mondariso locali è nel Novarese fortissimamente politicizzato e per loro è ormai il canto sociale, e non quello di tradizione folklorica, ad essere il canto di base.
Le mondariso locali erano infatti ben diverse dalla forestiere perché avevano condizioni contrattuali diverse, diverse condizioni di vita e di lavoro. Non conoscevano tra l’altro caporalaggio e tornavano a dormire nelle proprie case, a differenza delle forestiere che dormivano nei cascinali. Tra locali e forestiere spesso non correva buon sangue per ragioni di concorrenza e diversità di cultura. Fenisia Baldini, per esempio, per scelta non ha mai fatto la monda assieme a delle forestiere.
Le mondariso della provincia di Novara (allora assieme a Vercelli e Biella, nota come la “Provincia rossa” perché nel primo dopoguerra i deputati socialisti sarebbero stati ben 8 su 12) sono quelle che più hanno immesso canto sociale dei primi vent’anni del secolo nel repertorio delle mondariso che oggi ci è pervenuto, mentre il fatto che in risaia si canti di tutto lo si deve probabilmente molto agli apporti delle forestiere.
«Le otto ore gliele abbiamo insegnate noi alle forestiere», dice con un pizzico di orgoglio Angiolina Balocco di San Germano Vercellese, in una registrazione trascritta e riportata nel recente bellissimo volume dedicato al canto di risaia da Jona-Castelli-Lovatto1.
Ciò che rannoda la tradizione di canto sociale alla tradizione orale popolare non è tanto il modo d’esecuzione, che è ovviamente diverso se è eseguito, per esempio, in un Circolo operaio di città o durante il lavoro di monda, o nel lavoro domestico, quanto il suo essere fondamentalmente canto d’uso, sempre attualizzato attraverso la modificazione del testo di canti preesistenti o per un adattamento di nuove parole a melodie già note e per lo più notissime, sì da agevolare al massimo la diffusione orale del nuovo messaggio.
Avviene così che di un medesimo canto esistano più versioni e filiazioni, dovute ad adattamenti testuali, melodici, addirittura di stile d’esecuzione, a nuove situazioni sociali, politiche, di lavoro.
Esistono tuttavia anche testi – e sono nei repertori qui utilizzati moltissimi – che poco si prestano a massicce trasformazioni, e sono gli inni e i canti scritti da militanti che ben padroneggiano non solo la parola ma anche la scrittura (Filippo Turati o Pietro Gori, Guido Podrecca o Ulisse Barbieri, ecc.), quindi – anche se affidati a melodie assai conosciute, per lo più rispettate anche nell’uso multiforme –già in partenza scritti non certo “con mentalità orale”, come spesso avviene in situazioni dove sono presenti più codici culturali e diverse stratificazioni sociali. Questi inni – soprattutto se poi sono simboli di un’organizzazione – sono di solito testualmente rispettati, con al più la modificazione di qualche parola troppo aulica ed estranea alla cultura di chi li canta, mentre invece il loro stile esecutivo può ovviamente variare.
Il modo di trasmissione di questi canti era per contatto personale, dal momento che erano cantati nei circoli operai, alle riunioni delle leghe, sul lavoro e durante gli scioperi, attraverso cioè canali di comunicazione che aderiscono al vivere sociale e sono portatori – a differenza degli odierni mass media – di una comunicazione che è orizzontale e non dall’alto verso il basso.
Tra questi canali di comunicazione è per il Novarese molto importante la migrazione stagionale in risaia, che, come dicevo, vi fa affluire i canti di tutta la pianura padana e permette di irradiare canto sociale soprattutto in partenza dal Novarese, dove la Lega e la Federazione dei Lavoratori della Terra sono fortissimi e il Partito Socialista conta un numero di iscritti superiore a qualunque altra provincia italiana.
Su questi canali di comunicazione orizzontali si innesta tuttavia anche la comunicazione verticale dalla città alla campagna, dal propagandista socialista alla massa contadina – rappresentata dall’ “evangelismo socialista” che tocca le campagne con tutta una gamma di strumenti di “propaganda elementare” e in particolare con i canzonieri sociali o il giornale «l’Asino», fucina di canzoni anticlericali e antiministeriali.
Buoni conduttori di queste forme di “propaganda elementare” sono anche quegli emigranti che tornano politicamente e culturalmente trasformati ai paesi d’origine da Stati Uniti, Argentina, Germania, Svizzera e Francia e divengono quindi tramiti di profonde innovazioni anche all’interno delle loro culture di provenienza.
Parte della loro acquisita consapevolezza politica e sociale è spesso proprio rappresentata dalla conoscenza di canti sociali, poi cantati in compagnia nei luoghi di aggregazione posti a disposizione dalla vita dei paesi in cui vivono.
La cultura indotta dalle forme di “propaganda elementare”, che muove dalla città ed è fermento di trasformazione anche della cultura contadina, è peraltro il tramite di tutto quanto è stato prodotto dal “sovversivismo. anarco-socialista”.
Questo è particolarmente evidente per quel che riguarda il repertorio di canto sociale dei socialisti del Novarese, e beninteso non solo di esso.
Essi cantano, per esempio, molte canzoni di Pietro Gori, affidate alla melodie di canzonette in voga o di inni celeberrimi e pubblicati su canzonieri sociali sia anarchici sia socialisti spesso a larga diffusione, a volte diffusi anche attraverso bozzetti drammatici che nel primo decennio del secolo venivano recitati da moltissime filodrammatiche anche socialiste. E basterà qui ricordare tra essi Addio a Lugano (1895) e Inno del Primo Maggio (forse 1890), assai cantate nel Novarese.

“Solidarietà internazionale tra i lavoratori”. Rielaborazione di un’opera di Walter Crane (da “L’Asino, 1° maggio 1900)
Ma molte sono le canzoni anarchiche fatte proprie dal movimento socialista del Novarese, da l’Inno del sangue a La Marsigliese del lavoro di Carlo Monticelli.
Come spiegarsi questo fenomeno? A proposito della massiccia presenza di questi canti anarchici nel repertorio di molti militanti socialisti va ricordato che i canzonieri sociali, che furono uno del maggiori veicoli di circolazione di questi canti, e direi in particolare proprio quelli socialisti, riportano per lo più indifferentemente canti anarchici a fianco di canti socialisti, e questo non solo per l’ovvia esigenza di allargare il numero dei potenziali acquirenti, ma anche perché – almeno sino all’avvento del fascismo – tutti questi canti sono espressione di ideologie e di modi di praticare la lotta politica che continuano ad avere cittadinanza all’interno del Partito socialista stesso, rappresentano cioè ancora un fatto culturale unitario, sia pure percorso da complesse e variegate dialettiche interne. Si spiega così la ricchezza di posizioni intrinseca all’area culturale della propaganda elementare.
Entrano poi a fare parte del repertorio socialista il monostrofismo imperfetto utilizzato nel corso delle grandi agitazioni agricole della pianura padana negli anni Ottanta – prima quella detta de «La Boje», poi i moti dell’Alto Milanese – strofette in perenne modificazione e tuttavia sempre presenti, nate dal basso e che non hanno trovato presenza all’interno dei canzonieri sociali, dove non trovarono collocazione ne le strofette che compongono La canzone della Lega ne quelle che compongono Le otto ore e neppure quelle che compongono Bandiera rossa, sinché essa non divenne un vero e proprio inno che attorno al 1919, grazie alle nuove parole colte di Giorgio Tuzzi.
Non così sarà per l’Inno del Partito Operaio Italiano, quel Canto dei lavoratori scritto a Milano nel 1886 da Filippo Turati e poi musicato da Amintore Galli, vero inno del socialismo, reso celeberrimo anzitutto dalla persecuzione poliziesca e che è largamente ripreso anche dai canzonieri, nei quali del resto troviamo, a fianco dell’Inno di Garibaldi, le traduzioni della Sozialistenmarsch e dell’Internationale (1901), e l’Inno del Primo Maggio (1893) scritto da un anonimo operaio bresciano ma rivisto per la pubblicazione su «La Giustizia» da Camillo Prampolini, che tutti rappresentano la gamma degli inni più propriamente di partito.
Dai canzonieri verranno riprese anche le numerose canzoni anticlericali e antigovernative, spesso parodie pubblicate da «L’Asino», settimanale illustrato, che uscirà dal 1892 al 1925. Di esse, Il crak delle banche (1896, sull’aria del valzer «O patria mia» delle Campane di Corneville) di Ulisse Barbieri, Serenata alfonsina (sull’aria del Boccaccio), La beghina (1907, sull’aria della canzonetta La Ciociara) e I 365 primi maggi del preti (1907, sull’aria della Gheisha) – tutte con testi del fondatore e direttore de .l’Asino. Guido Podrecca (“Goliardo”, Vimercate 1865 – Vimercate 1923), sono le più conosciute anche nel Novarese e sono state tutte non casualmente riprese nel Canzoniere sociale illustrato compilato dall’editore Arturo Frizzi, che conobbe cinque diverse edizioni tra il 1908 e il 1921 e venne diffuso in decine e decine di migliaia di copie.
Il mantovano Arturo Frizzi 2 (3 maggio 1864 -28 giugno 1940), ciarlatano, fierante con mercerie ed editore, fu di casa anche a Novara. Il 19 dicembre 1903 «Il Lavoratore» pubblica Propaganda spicciola. Una montagna preziosa; poi il 21 gennaio 1904 Il cane e il gatto; poi il 9 e il 16 luglio 1904 appaiono manchettes pubblicitarie nelle quali si informa che presso la redazione del «Lavoratore» si vendono le sue cartoline con canzoni e le sue spille di Carlo Marx e di Enrico Ferri: il 1° aprile 1905 viene pubblicato il suo scritto L’Ufficio Internazionale agricolo e il 26 giugno 1908 la pubblicità del suo Nuovo canzoniere illustrato. Arturo Frizzi, che nel novembre 1904 fu addirittura portato candidato socialista alla camera dei deputati nel Collegio di Ivrea, svolse a più riprese anche opera di propagandista a pagamento. Frizzi, che è in quegli anni vicino alla tendenza intransigente ferriana, come scrive Rinaldo Salvadori, «assume spesso e di volta in volta le vesti del diffusore della stampa democratica e del propagandista per un mese viene assunto e lanciato in una zona particolarmente ostica, a smuovere ostacoli per altra strada insuperabili»3.
Egli agisce sulle piazze che ormai «non sono più soltanto il luogo di incontro domenicale e il luogo obbligato di raccolta di disoccupati in attesa di ingaggio; ora sono centri di relazione, aperti a tutte le scorrerie delle idee politiche, a tutti gli accaparramenti di voti, alla circolazione delle nuove merci e dei sotto prodotti dell’inganno.
È in questo ambiente poco conosciuto, ove un sottoproletariato di «ciarlatani» trova il luogo ideale, che germogliano già i primi sintomi di una vita politica dalle relazioni più ricche, la prima solidarietà della gente della campagna, le prime predicazioni socialiste.
Il Frizzi ha subito questo ambiente e ha poi cercato di modifìcarlo sulla base della sua esperienza, che non poteva che essere limitata, ma che si presentava efficace nella creazione di un nuovo costume politico e civile»4 .
E il suo passaggio – ancor più la diffusione dei suoi “canzonieri” – ha lasciato più di una traccia anche nel Novarese, dove, per esempio, tenne conferenze su L’organizzazione di fronte ai trust ai metallurgici a Novara il 26 e a Omegna il 27 marzo 1905, in un giro di propaganda organizzato dall’organizzazione dei metallurgici.
Ma il propagandista Arturo Frizzi è solo una parte di un macroscopico fenomeno di comunicazione che abbraccia le bande musicali e le corali socialiste, i canzonieri sociali, le cartoline con riportate la canzoni (anch’esse edite dal Frizzi), i fogli volanti, gli almanacchi socialisti, i giornali stessi che pubblicano spesso canzoni, in seguito i dischi.
Tutti elementi che aiutano il sedimentarsi nella memoria di massa di un repertorio di canti che, veicolo efficacissimo di propaganda elementare, viene cantato in osteria, nei Circoli operai, nelle Cooperative, nelle Case del popolo, nella sede della Lega o del Sindacato, sul lavoro o durante gli scioperi o ancora nell’emigrazione.
Non casualmente molti sono i canzonieri o i fogli volanti stampati negli Stati Uniti – soprattutto a Barre e a Paterson, centri di organizzazione anarchica – e in Argentina.
Infine un punto cruciale di tutto questo processo è la propaganda dell’evangelismo prampoliniano, aspetto determinante nel modificare il modo di pensare soprattutto nelle campagne.
Dopo gli scioperi del marzo 1901, i socialisti hanno improvvisamente seguito a Cressa, Fontaneto, Cavaglio, Cureggio, Suno, Cavaglietto, Gattico, Agrate, Vicolungo, Fara, in altre località, e «La Cronaca Novarese» commenta il 26 aprile 1901: «Come devono trovarsi sfiduciati quei parroci che fino a ieri esclamavano: Noi possediamo il popolo e non saremo abbandonati Come devono sentirsi avviliti ora che anche i fanciulli si divertono mestamente cantando il ritornello della “Morale Alfonsina” e parodiando gli Oremus e i Kyrie eleison della messa.
Non sembra vero, eppure è ancora fresca l’impressione dei fattacci di Cressa, Fontaneto, ove le donne stesse armate di falce e di tridenti applaudivano freneticamente alle ineffabili castronerie degli Erbetta e dei Vedani, due vere nullità, contro la religione ed il Papa».
Il clima delle campagne del Novarese sta cambiando e ormai – scrive ancora «La Cronaca Novarese» il 29 settembre 1901– «in ogni villaggio c’è dei sarti, dei ciabattini, dei bocciati in qualche scuola, che pure hanno ambizioni di dirigere il popolo, di parlare da dotti, di fare i saputi (…) Mangioni, ubriaconi e prepotenti più di qualunque grasso o magro borghese, essi sfamano il popolo sparlando di San ‘Alfonso». I cattolici chiamano i socialisti “ciucialìter” (succhialitri, avvinazzati).
Del resto, parlando dei preti i socialisti non sono da meno, anzi, perché se l’anticlericalismo socialista intesse da un lato una critica del principi morali e religiosi cattolici muovendo dall’interno stesso della cultura religiosa dei contadini per innovarla in un senso laico, non trascendente, e quindi accetta come terreno di discussione il Vangelo, l’offensiva contro il clero nei settori dove esso ha i capisaldi della propria egemonia, cioè nell’ambito della educazione, della famiglia e delle pratiche religiose (“la superstizione”, viene di solito chiamata), è spesso di violenza inusitata.
Ciò che tuttavia preoccupa di più i parroci è che i socialisti contrappongano a Cristo Dio un Cristo uomo e si direbbe che sia su questo terreno che essi temano di più il socialismo.
Don Giuseppe Provasi, parroco di Monticello organizzatore di una lega bianca – nel corso di una durissima polemica contro Romolo Funes, primo segretario della Camera del lavoro di Novara – non nasconde la sua irritazione perché «Il Lavoratore», giornale socialista della provincia, porta scritto a caratteri cubitali in cima alla terza pagina: «”È più facile che un cammello passi da una cruna d’ago che un ricco entri nel regno di Dio” (G. Cristo, S. Luca. XVIII, 25»; e commenta: «Questa razza di moderni falsi profeti vorrebbe distruggere d’un colpo tutta la religione cristiana affermando recisamente che Gesù Cristo non è Dio, ma solo un grande uomo, un filosofo, un sociologo sulla taglia del loro Carlo Marx»5.
Però i «falsi profeti» guadagnano sempre più terreno nelle campagne, in passato egemonizzate dalla Chiesa. cercando di dare sbocco alle lotte che si sono improvvisamente sviluppate e al contempo affiancando la polemica anticlericale al «socialismo evangelico» di Camillo Prampolini, per il quale la religiosità è essenzialmente una metafora.
In realtà tutta la ritualità e la mitologia socialista hanno carattere di simbologia laica – il che non vuol dire che non possa avere momenti catechistici, indispensabili nel dialogo con un mondo ancora sottomesso all’influenza di una struttura patriarcale e rurale, con una popolazione nel migliore dei casi appena alfabetizzata – e anche il “Gesù socialista” non è altro che un Dio ricondotto totalmente alla dimensione umana.
Per criticare la stretta interdipendenza tra sistema capitalistico e Chiesa secolare, a essa viene contrapposta l’originaria funzione e ispirazione evangelica dei cristiani, contrapponendo l’insegnamento di Cristo – “primo socialista” che ha difeso i poveri e condannato i ricchi, fustigatore delle ingiustizie e annunciatore di un mondo di fraternità – alla corruzione del Vaticano in quanto potenza terrena e all’insegnamento del clero, integrato esso stesso e che tende all’integrazione altrui nel sistema sociale vigente, alimentando solo il novero dei “novelli farisei”.
Di qui il costante richiamo della predicazione socialista nelle campagne della parabola evangelica della cacciata dei mercanti nel tempio e la definizione della Chiesa come di una “santa bottega”.
Il prete insomma non deve impicciarsi di politica ne mettersi a capo di leghe. La separazione tra religione e politica deve essere totale, perché il prete – con i suoi inviti alla rassegnazione – ha ridotto la religione a strumento di difesa degli interessi padronali, a modello che induce al rispetto dei potenti della terra. Così facendo i preti hanno tradito la religione e per questo è bene che non mettano in piedi leghe concorrenziali ai socialisti, perché “interessandosi di politica” bastonano inevitabilmente Gesù.
La penetrazione dell’ “evangelismo socialista» nel Novarese si può anche commisurare dal fatto che ancora oggi è possibile sentire parlare di Cristo come del primo socialista o sostenere che i preti non debbono impicciarsi di politica, mentre ancora negli anni Cinquanta Alessandro Bermani era solito dire nei suoi comizi che il libro posto sotto la falce e il martello nel simbolo del partito «è il Vangelo».
Ne questo “evangelismo socialista” è contraddittorio con l’atteggiamento che contrappone “la scienza”, “il progresso”, alla superstizione e ai miracoli, interpretate come segni di una riduzione del messaggio cristiano, di un suo snaturamento ciarlatanesco. Così il Comitato Anticlericale di Novara organizza il 14 aprile del 1907 la demistificazione del miracolo napoletano di San Gennaro, facendo venire al Politeama Municipale il socialista avvocato Allasia e il professor Ferruccio Roseo, entrambi di Torino. che compiono a loro volta il “miracolo” con sangue comune di bue di fronte a 1.500 persone plaudenti.
La prima guerra mondiale vede l’affiancarsi di strofette monostrofiche ai canti di Spartacus Picenus, mentre dopo l’occupazione delle fabbriche e lo sciopero dei cinquanta giorni (che porta con sé la maggiore conquista operaia, cioè il controllo del collocamento) su questo mondo si abbatterà il fascismo, reazione soprattutto agraria e a dare l’idea della durezza dello scontro, questo breve ricordo della battaglia di Lumellogno del 1922.
Ben presto non resterà che sfogarsi cantando Giovinezza pé ’ntal cü.
Nelle mie intenzioni, questi due CD si affiancano quali strumenti indispensabili per capire la storia del «Biennio rosso» e della reazione fascista in Provincia di Novara
alle altre mie pubblicazioni in materia 6.
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1. Franco Castelli, Emilio Jona e Alberto Lovatto, Senti le rane che cantano. Canzoni e vissuti popolari della risaia. Roma, Donzelli, 2005, p. 556.
2. Su di lui si veda in particolare Arturo Frizzi. Vita e opere di un ciarlatano, a cura di Andreina Bergonzoni. Milano, Silvana editoriale, collana “Mondo popolare in Lombardia” n.8, 1979.
3. Rinaldo Salvadori, Arturo Frizzi e i canzonieri con un’Appendice bibliografica, in «il nuovo Canzoniere italiano», Milano, Edizioni Avanti!, n. 2, gennaio 1963, p.44.
4. Ibidem, p. 43.
5. La prontezza di parola del socialista Romolo Funes, in «Cronaca Novarese», 12 luglio 1901.
6. La Battaglia di Novara (9 luglio – 24 luglio 1922). Occasione mancata della riscossa proletaria e antifascista. Milano, Sapere edizioni, dicembre 1972, pp. 346; Tutti o nessuno. Lo sciopero agricolo dei cinquanta giorni e l’occupazione delle fabbriche nel Biennio rosso a Novara (1919-1920). Milano, Shake edizioni, 27 giugno 2005, pp. 1-196.
Il libro «Vieni o Maggio», Interlinea edizioni, Novara 2009, pp. 114 con due cd audio, può essere richiesto direttamente all’Archivio Bermani.